Dr. Colletti, intanto cosa emerge dallo studio americano?
Si tratta di una delle tante analisi pubblicate in questi anni sulla sicurezza dei botanicals. Nello specifico, i ricercatori hanno condotto un’analisi quali-quantitativa su un determinato numero di prodotti in commercio contenenti estratti di Cranberry. I risultati sottolineano come alcuni prodotti sul mercato europeo possano essere adulterati: niente Cranberry ma presenza di altre tipologie di estratti, ovviamente meno costosi. In aggiunta, una buona parte dei prodotti non aveva le titolazioni degli ingredienti indicate. In particolare, nel caso del cranberry, quello che si va a verificare è la titolazione delle proantocianidine di tipo A o Pac A, perché sono quelle a cui viene attribuita l’azione antimicrobica nelle infezioni delle vie urinarie. È bene precisare che gli estratti titolati e standardizzati in Pac A hanno un costo decisamente più elevato. Nella maggior parte dei prodotti non vi era corrispondenza tra la titolazione dichiarata in etichetta, e quella reale. In alcuni casi, addirittura, le Pac A nemmeno erano presenti. Altro aspetto rilevante, infine, la presenza di contaminanti: alcuni prodotti risultavano contaminati da metalli pesanti, residui di solventi organici o microbici, in quantità superiori alla soglia minima di sicurezza prevista per legge.
È un rischio presente anche sul mercato italiano?
Potenzialmente sì. Noi come Università di Torino stiamo concentrando la nostra attenzione proprio sul tema della qualità e della sicurezza dei botanicals, attraverso la messa a punto di nuove tecnologie estrattive “green” ad uso “food” per ridurre il rischio di contaminazione con residui organici, in aggiunta a un’accurata analisi su alcuni prodotti/materie prime presenti nel nostro mercato. Tra i nutraceutici più a rischio di contaminazione, i funghi medicinali risultano quelli più contaminabili. Già i primi dati evidenziano parecchie non corrispondenze, al punto che ci stiamo già muovendo per prendere contatto con il ministero della Salute al fine di segnalare non conformità molto pesanti.
Come è strutturato il mercato integratori nel nostro Paese?
Ci sono due grandi categorie di aziende produttrici e distributrici. La prima ruota intorno al cosiddetto contoterzismo: io, azienda medio-piccola, vado dal contoterzista a farmi produrre gli integratori. Il contoterzista compra la materia prima e troppo spesso si fida del certificato di analisi che fornisce il venditore. Quasi mai il contoterzista, soprattutto se piccolo, effettua analisi di sua spontanea volontà per controllare l’uniformità del certificato proveniente dal venditore. Questo, laddove la materia prima sia adulterata o non conforme, presenta ovviamente dei rischi, perché andrà a ripercuotersi sul prodotto finale e quindi sull’azienda committente. C’è poi il comparto delle aziende più grosse e strutturate, con controlli di qualità interni, in grado di esercitare verifiche a campione, dalla materia prima al prodotto finito, garantendosi così la capacità di intercettare eventuali problematiche.
Cosa dicono le norme di settore?
La norma madre è la numero 178 del 2002 che descrive l’integratore come un alimento che, in quanto tale, per essere commercializzato deve garantire il requisito di sicurezza, dettata dalla “storia di consumo significativo sul territorio”: cioè se è da prima del 15 maggio del 1997 che una determinata sostanza alimentare è in commercio, in virtù proprio della sua storia di consumo significativo, ne è consentita la vendita come integratore.
Ci sono però norme che regolano le soglie consentite di eventuali contaminanti presenti, divisi per categorie, da quelli biologici, agli idrocarburi policiclici aromatici e così via. Quando si effettua un’analisi quali-quantitativa sulla materia prima, si vanno a cercare i contaminanti più facilmente riscontrabili in quell’ambito. Per esempio, nei funghi medicinali è più facile trovare metalli pesanti, micotossine piuttosto che residui organici provenienti dai metodi di estrazione. Ovviamente, se i contaminanti superano una certa soglia, quella materia prima non può essere commercializzata. Molto spesso, però, arrivano da noi materie prime provenienti da Paesi extra Ue, come per esempio la Cina, che sulle soglie di sicurezza hanno maglie molto più larghe delle nostre e per le quali c’è maggiore bisogno di attenzione.
Quale sono le aree dei botanicals più a rischio?
Quasi tutte, in particolare quelle con materie prime che, come abbiamo visto, arrivano da zone di coltivazione dell’Est asiatico e Sud America, dove le norme sono meno restrittive delle nostre. Le categorie più esposte sono quelle dei funghi medicinali, lo stesso Cranberry, piuttosto che i derivati dalle piante adattogene quali, per esempio, Ginseng, Ginko biloba, Echinacea e Rodiola.
Che suggerimenti dare ai professionisti per guidare a una scelta consapevole i consumatori?
Innanzitutto, consiglierei di affidarsi ad aziende che commercializzano prodotti di qualità, garantita anche da controlli interni: bisogna essere certi che il contenuto corrisponda ai certificati di accompagnamento della materia prima. Oltre all’aspetto relativo alla materia prima, però, è fondamentale accertarsi della qualità formulativa, da approfondire attraverso la bibliografia di supporto. Infine, da non sottovalutare la qualità produttiva: il contenitore primario, quello secondario, il packaging, sono fondamentali per la stabilità chimica, fisica e microbiologica del prodotto. Posso avere una materia prima di qualità eccellente, ma se formulo, produco e confeziono male mi espongo al rischio di contaminazione al punto da compromettere sicurezza ed efficacia del prodotto finale. È importantissimo conoscere a fondo l’azienda fornitrice, valutare i metodi produttivi, le materie prime che tratta, informarsi in letteratura se ci sono studi di efficacia su materie prima ma anche sul prodotto finale, eccipientistica compresa.
Nicola Miglino