Il selenio potrebbe essere strettamente legato alla prognosi dei pazienti colpiti da Covid-19. L’ipotesi viene suggerita da ricercatori dell’università del Surrey, in Gran Bretagna che hanno da poco pubblicato uno studio sull’American journal of clinical nutrition analizzando alcuni dati provenienti dall’esperienza cinese.
Il selenio è stato identificato per la prima volta come sottoprodotto della produzione di acido solforico nel 1817 da un chimico svedese, Jöns Jacob Berzelius, e per molti anni è stato considerato una tossina ambientale con potenziali effetti dannosi per l'uomo. Nel 1957, il lavoro pionieristico di Schwarz e colleghi, dimostrò che la necrosi epatica nei ratti poteva essere prevenuta con l'integrazione a basse concentrazioni di selenio, gettando nuova luce su questo microelemento e portando al suo riconoscimento come micronutriente essenziale.
Oltre il 30% dei pazienti con malattia tiroidea fa uso di integratori. Eppure, la classe medica mostra scetticismo totale o non si rivela sufficientemente preparata per discutere con loro di rischi e benefici, sulla base delle evidenze scientifiche che oggi emergono dalla ricerca.