“È bene ribadire che al momento non vi sono evidenze solide su questo fronte” dice Colletti. “Detto questo sappiamo che la vitamina D è un ormone importante non solo per l’omeostasi del calcio ma anche per quella immunitaria e infiammatoria così come è noto che i soggetti con ipovitaminosi D hanno un maggior rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, autoimmuni, deficit neurologici piuttosto che di andare incontro a infortuni muscolari. Oggi, però, non ci sono evidenza per una raccomandazione all’uso su pazienti Covid 19. Quello che si è osservato è che in soggetti con artrite reumatoide la vitamina D tende a spegnere l’infiammazione agendo sulle citochine proinfiammatorie insieme alla terapia biologica. Perciò alcuni ricercatori ne hanno ipotizzato un ruolo su pazienti Covid 2, molti dei quali in ipovitaminosi D. Quindi, a oggi, non ci sono studi di intervento che ne suggeriscono un impiego ma sicuramente dei razionali giustificano il via a trial clinici. In generale, comunque, nei soggetti sani e soprattutto in quelli con ipovitamonosi D l’integrazione può e deve essere consigliata. Le formule più indicate sono quelle spray, nanoemulsionate, una delle strategie farmaceutiche utilizzate per aumentare la biodisponibilità. Vi sono poi formulazioni orali in capsule e bustine, sempre sotto forma di nanoemulsione. In questo caso l’assorbimento è prettamente intestinale, soprattutto nella prima porzione del duodeno fino all’ileo. Si tratta di un trasporto saturabile, per cui piccoli dosaggi quotidiani di vitamina D, pari a 25-50 microgrammi sono da preferirsi rispetto a dosaggi più elevati”.
Nicola Miglino