Parkinson: benefici dei flavonoidi sulla sopravvivenza dei malati

02 Febbraio 2022

Il consumo di flavonoidi potrebbe presto rivelarsi un’arma efficace nel riduce il rischio di mortalità nei malati di Parkinson, secondo quanto emerso da uno studio pubblicato di recente su Neurology.

“Già un nostro studio precedente aveva messo in evidenza una minore incidenza di malattia tra chi seguiva una dieta ricca di flavonoidi”, affermano gli “Autori. “Questo ci ha spinto a verificare quanto questo tipo di approccio fosse in grado di aumentare la sopravvivenza dei malati”.

Il Parkinson non è considerato, come noto, malattia mortale, mentre il rischio aumenta notevolmente in virtù delle complicanze correlate.

Ecco così che i ricercatori hanno preso in esame i dati alimentari, ricavati tramite questionario, di 599 donne e 652 uomini afferenti rispettivamente al Nurses’ health study e all’Health professionals follow-up study, lungo un follow-up complessivo di 32 anni. Il consumo totale di flavonoidi è stato calcolato moltiplicandone il contenuto negli alimenti dichiarati per la frequenza di consumo.

Dopo la correzione di fattori potenzialmente confondenti come l'età piuttosto che altri correlati alla dieta quali le calorie totali consumate o la qualità complessiva del regime alimentari, i dati hanno rivelato, nel percentile a maggior consumo di flavonoidi (673 mg/die), una probabilità di sopravvivenza del 70% maggiore rispetto al percentile a consumo più basso (134 mg/die).

L’analisi è scesa anche nei dettagli dei singoli flavonoidi: per le antocianine (vino rosso e frutti di bosco), il gruppo a consumo maggiore aveva, rispetto a quello più scarso, un rischio ridotto del 66%, mentre per i flavan-3-oli (mele, tè e vino) del 69%.

Ovviamente si tratta di uno studio osservazionale, ma i ricercatori si sono spinti ad addurre alcune plausibili spiegazioni a questi risultati: "I flavonoidi sono molecole antiossidanti”, dice Xinyuan Zhang, nutrizionista alla Penn University e prima firma dello studio. “È quindi è possibile che siano in grado di ridurre lo stato di neuroinfiammazione cronica, nonché di interagire con le attività enzimatiche e rallentare la perdita di neuroni, proteggendo così il soggetto dal declino cognitivo e dalla depressione, entrambi associati a un rischio di mortalità più elevato. L’auspicio è che studi futuri possano aiutarci a scoprire i meccanismi esatti di interferenza, così da mettere a punto interventi mirati nei soggetti colpiti dalla malattia”.

Nicola Miglino

 

 

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