All’epoca, in piena Seconda guerra mondiale, presso l’Istituto Scorby di Sheffield, venne condotto uno studio finalizzato a comprendere le dosi minime di alimenti freschi con cui rifornire le scialuppe di salvataggio delle navi militari per evitare la comparsa di problemi di salute agli equipaggi.
Tra questi, lo scorbuto, malattia legata alla carenza di vitamina C, un cofattore importante nella formazione di collagene, il cui deficit porta a sanguinamenti gengivali e difficoltà di cicatrizzazione delle ferite.
Nell’esperimento del 1944, condotto dal futuro premio Nobel Hans Krebs ma oggi del tutto impensabile per ovvie ragioni etiche, 20 obiettori di coscienza, su base volontaria, furono divisi in tre sottogruppi ciascuno sottoposto a un diverso trattamento: 0, 10, 70 mg/die di vitamina c sino alla comparsa di segni di scorbuto, quali sanguinamenti o difficoltà di cicatrizzazione. Ferite venivano addirittura inferte appositamente dagli sperimentatori per valutare le risposte dei sottogruppi.
Dopo nove mesi di test, fu individuata la dose minima per prevenire lo scorbuto, ovvero 10 mg/die, indicazione su cui si basò in parte l’Oms per definire la sua raccomandazione pari a 45 mg/die.
Due ricercatori americani hanno però ripreso in mano lo studio del 1944 rianalizzando i dati con i moderni metodi statistici, giudicando le misure dell’epoca letteralmente “fatte a occhio”.
Nel gruppo 10 mg i benefici erano inferiori del 42% rispetto al gruppo 70 mg ed era riscontrabile un effetto dose-risposta per cui il range ottimale giornaliero oscillava tra i 75 e i 110 mg, in linea con quanto oggi raccomandato dalla National academy of medicine e da Efsa.
Da rivedere, dunque, le indicazioni Oms: non 45 ma mediamente 95 mg/die. Inoltre, secondo gli americani, il recupero da una situazione di scorbuto conclamato richiede tempi lunghi e alte dosi: non bastano, infatti, 90 mg/die dati per sei mesi.
Nicola Miglino