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I misteri della dieta: possibile che un alto consumo di grassi saturi non faccia male?

15 Marzo 2019

Alcune recenti pubblicazioni, relative all’effetto dei grassi e dei carboidrati alimentari sul rischio cardiovascolare e sulla mortalità per tutte le cause, hanno dato inizio a un dibattito piuttosto intenso.

A innescarlo sono stati soprattutto i dati ottenuti nello studio Pure (Prospective urban rural epidemiology, Lancet 2017 Nov 4;390 (10107):2050-2062), un grande studio osservazionale, disegnato con l’obiettivo di raccogliere informazioni sulla relazione tra stili di vita, alimentazione e rischio cardiovascolare anche nei Paesi con un reddito pro capite basso o intermedio, arruolando soggetti residenti in ambiti sia rurali sia cittadini, coordinato dal gruppo canadese di Salim Yusuf alla McMaster Univesity.

Disegno e risultati

Lo studio Pure ha arruolato, tra il gennaio 2003 e il marzo 2013, circa 140mila individui di ambo i sessi, di età compresa fra 35 e 70 anni, residenti in oltre 600 comunità, in larga parte localizzate in Estremo Oriente e in ambiti rurali. Tra i Paesi più rappresentati nella coorte si trova infatti la Cina rurale, con un contributo pari al 40% circa dei soggetti totali arruolati. Il risultato emerso dallo studio PURE che ha suscitato maggiore attenzione da parte dei media e degli addetti ai lavori è la correlazione tra l’apporto dei grassi e dei carboidrati alimentari, il rischio cardiovascolare e la mortalità per tutte le cause. Questi risultati possono essere così sintetizzati: la mortalità (sia totale e sia per eventi cardiovascolari) diminuisce con il crescere dell’apporto calorico da grassi totali, e non è sostanzialmente influenzata dall’apporto di grassi saturi, nemmeno quando questo è molto elevato; con il crescere dell’apporto di grassi mono- e poli-insaturi la mortalità tende invece a ridursi. Se le calorie da carboidrati eccedono il 60% circa dell’apporto calorico, per converso, la mortalità totale inizia a salire, muovendosi in parallelo a quella per eventi cardiovascolari.

Occhio a varietà della dieta

Come interpretare questi dati, apparentemente in totale disaccordo con le raccomandazioni della maggioranza delle Linee Guida mondiali sul tema? L’osservazione più semplice da spiegare è probabilmente l’aumento della mortalità associato ad un’elevata quota di carboidrati nella dieta: questa caratteristica rappresenta infatti, con ogni probabilità, semplicemente un indicatore di un pattern alimentare incompleto e poco variato. Chi consuma il 70% e oltre delle calorie da carboidrati, specie nell’oriente rurale dove lo studio è stato in buona parte condotto, si alimenta probabilmente in modo prevalente con riso bollito, caratterizzato tra l’altro da un elevato indice glicemico: sono la carenza di nutrienti e dei principi protettivi reperibili in una dieta più variata, e il limitato valore nutrizionale dei carboidrati consumati (e non il loro eccesso) i probabili responsabili dell’aumento di mortalità osservato in questo sottogruppo della popolazione.

Il dibattito si riapre

L’assenza di un eccesso di eventi sfavorevoli tra le persone che consumano una quota di calorie da grassi superiore al 30% non è invece una reale novità. Già nello studio Whi, condotto con il supporto del governo statunitense all’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso, la riduzione di circa un quarto della quota calorica dei grassi totali non ebbe alcun impatto sull’incidenza di eventi cardiovascolari. Ma se l’inopportunità di considerare gli effetti dei grassi alimentari nel loro complesso (sommando saturi, monoinsaturi e polinsaturi) è quindi emersa già da tempo, l’esistenza (o invece l’assenza) di danni associati al consumo elevato o eccessivo di grassi saturi torna ad essere, dopo decenni di visioni condivise, oggetto di dibattito. Nello studio Pure il dato è apparentemente molto chiaro: al crescere dei consumi di saturi la mortalità totale tende a scendere, fino almeno a valori pari al 15% circa, mantenendosi poi sostanzialmente invariata con consumi maggiori. Gli eventi cardiovascolari maggiori sono invece stabili con consumi di grassi saturi tra il 10 ed il 18% (il massimo rilevato) dell’apporto calorico totale.

Palmitico, miristico, stearico: non tutti uguali

Anche due recenti metanalisi che hanno affrontato in modo sistematico la relazione tra l’apporto di grassi saturi e la mortalità cardiovascolare e totale non hanno rilevato alcun incremento del rischio di eventi passando dai gruppi con basso consumo di questi grassi a quelli con consumo elevato. I risultati dello studio Pure, pertanto, sarebbero in sostanziale accordo con i risultati della ricerca epidemiologica più recente sull’argomento, che non soffre delle limitazioni geografiche dello studio Pure stesso. Non si può d’altra parte non considerare che gli effetti metabolici diretti degli acidi grassi saturi, testati in modelli cellulari o in studi di intervento in acuto nell’uomo, sono in larga parte sfavorevoli. Il profilo lipidico peggiora dopo il loro consumo, con un aumento significativo e costante, sia del colesterolo Ldl sia del colesterolo Hdl.

Tuttavia, i grassi saturi con maggiore effetto sul profilo lipidico stesso (il palmitico e il miristico) non sembrano avere effetto peggiorativo sul rischio di infarto rispetto allo stearico, un acido grasso saturo che non ha invece effetti discernibili sul colesterolo Ldl. Quest’osservazione, in linea con quanto osservato nello studio Pure, mette in dubbio il ruolo degli acidi grassi saturi nel favorire eventi cardiovascolari. Per conciliare queste osservazioni con il ruolo negativo del colesterolo Ldl nel causare eventi cardiaci, si può ragionare in termini di contesto dietetico complessivo, ipotizzando che l’effetto degli acidi grassi saturi (e dell’aumento del colesterolo Ldl) diventi rilevante solo quando questi siano inseriti in una dieta eccessivamente calorica e di per sé pro-infiammatoria, la dieta ad esempio diffusa negli Usa. Non a caso i livelli dei marker di infiammazione sono aumentati dall’apporto alimentare dei grassi saturi, mentre le adipochine antinfiammatorie si muovono in direzione opposta. Va ancora ricordato che anche se molti dati, sintetizzati e discussi in questo articolo, tendono a ridimensionare il ruolo di grassi saturi nel determinare il rischio cardiovascolare, del tutto convincente è invece l’evidenza che la parziale sostituzione dei saturi stessi con acidi grassi mono o poli-insaturi si associa a una riduzione del rischio stesso.

Relazione tenuta da Andrea Poli al Congresso “Conoscere e Curare il Cuore”. Coordinamento Francesco Prati, Presidente Centro Lotta contro l’Infarto, Fondazione onlus (Firenze 28/2-3.3 2019).

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