Identificati componenti del caffè in grado di inibire la crescita di cellule tumorali prostatiche

20 Marzo 2019

Per la prima volta, uno studio pilota, condotto sull’animale, ha evidenziato l’effetto di due componenti del caffè, il kaveol acetato e il cafestolo nell’inibire la crescita del tumore della prostata.

I risultati dello studio di Hiroaki Iwamoto del dipartimento di Terapia oncologica integrata e Urologia dell’Università Kanazawa in Giappone, sono stati presentati di recente a Barcellona al Congresso dell’Associazione europea di urologia (Eau), dopo essere stati pubblicato su Prostate (2019 Apr;79(5):468-479).

Inizialmente, i ricercatori hanno testato sei componenti del caffè, caffeina, acido caffeico, acido clorogenico, trigonellina e naturalmente il kaveol acetato e il cafestolo su cellule tumorali prostatiche umane LNCaP, LNCaP-SF, PC-3 e DU145, resistenti a farmaci antitumorali quali il cabazitaxel. Sono stati valutati gli effetti su apoptosi, transizione epitelio-mesenchimale delle proteine, recettori di androgeni nella cellula e nel nucleo e sulle chemochine.

Solo kaveoll acetato e cafestolo sono risultati efficaci nell’inibizione della proliferazione di cellule tumorali in vitro, pertanto solo questi due componenti sono stati utilizzati su 16 topi Scid in cui erano stati trapiantate cellule tumorali prostatiche. Lo studio è stato così condotto: 4 topi di controllo, 4 trattati con kaveol acetato, 4 con cafestolo e gli altri 4 con una combinazione di cafestolo/kaveol acetato.

“Abbiamo riscontrato che il kaveol acetato e il cafestolo insieme agiscono sinergicamente nell’inibire la crescita delle cellule tumorali” afferma Iwamoto. “Dopo 11 giorni, nei topi non trattati il tumore era cresciuto 3 volte e mezzo rispetto al volume iniziale, mentre nei topi trattati con entrambi i composti il tumore era aumentato poco più di una volta e mezza”.

Prosegue Iwamoto: “Si tratta di uno studio pilota che dimostra che l'uso di questi composti ha un razionale scientifico, ma necessita di ulteriori indagini per l’impiego clinico. Attualmente stiamo valutando come potremmo testare questi risultati in un campione più ampio di topi per poi passare all’uomo".

Anna Fasoli

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