Acidi grassi e rischio cardiovascolare: relazione da rivedere

27 Gennaio 2021

Ad aumentare il rischio cardiovascolare non sono i grassi totali o gli acidi grassi saturi in quanto tali ma più probabilmente alcuni degli alimenti che li contengono. Questa uno delle conclusioni di una review pubblicata su Nutrients che suggerisce di riconsiderare, sulla base delle evidenze a oggi disponibili, quanto suggerito dalle linee guida più recenti sul fatto che l’apporto totale di grassi della dieta non dovrebbe eccedere il 30% delle calorie e quello dei saturi il 10%.  Ne abbiamo parlato con uno dei due Autori, Andrea Poli, presidente di NFI - Nutrition Foundation of Italy.

Prof. Poli, qual è stato il razionale di partenza della vostra analisi?

Con Francesco Visioli, con cui abbiamo elaborato la review, siamo partiti da una considerazione di carattere generale: la relazione tra i grassi alimentari totali, inclusi saturi, mono e polinsaturi e transinsaturi e il rischio cardiovascolare è stata oggetto di una revisione significativa, sulla base delle più recenti indicazioni della letteratura scientifica. I risultati degli studi epidemiologici e delle metanalisi hanno modificato infatti molte delle nostre conoscenze in proposito. Le informazioni reperibili sui media, ma anche nella letteratura scientifica divulgativa, continuano tuttavia a fare riferimento a modelli interpretativi in larga parte superati. Ci è sembrato quindi importante attirare l'attenzione sulle novità emerse, fornendo anche il supporto di una documentazione bibliografica che consentisse di accedere agli articoli più rilevanti e ad alcune possibili interpretazioni delle discordanze rilevate tra studio e studio.

Che risultati avete potuto osservare?

Come avevamo ipotizzato, un tentativo di lettura evidence-based delle evidenze della letteratura fornisce un quadro assai diverso della relazione tra consumo di grassi alimentari e rischio cardiovascolare rispetto a qualla prevlente. La relazione tra il rischio stesso e il contenuto totale di grassi della dieta non è per esempio da tempo sostenuta dalla letteratura. Ciò nonostante, anche le linee guida più recenti continuano a suggerire che l’apporto totale di grassi della dieta non dovrebbe eccedere, con obiettivi di salute e di benessere, nonché di prevenzione delle principali malattie degenerative, il 30% delle calorie.


Ci può fare alcuni esempi?

Più nello specifico, è emerso con chiarezza che almeno alcune delle categorie dei principali acidi grassi sono correlate in maniera piuttosto debole con il rischio cardiovascolare. Larga parte di queste correlazioni è probabilmente spuria e riflette gli effetti degli alimenti che ne rappresentano la fonte principale nei vari modelli dietetici.

Non è infatti agevole immaginare come sia possibile che i saturi che derivano dalle carni abbiano effetti di salute differenti da quelli che derivano dalla filiera del latte, come emerge per esempio con chiarezza dallo studio Mesa, condotto negli Stati Uniti, o da alcuni confronti Europa/Usa: le molecole più rappresentate, essenzialmente gli acidi grassi a 12-18 atomi di carbonio, sono infatti sostanzialmente le stesse. Analogamente, gli effetti di salute opposti rilevati nelle coorti statunitensi per gli acidi grassi monoinsaturi di differente origine, in relazione al rischio cardiovascolare, sono ben poco comprensibili. Non è facile spiegarsi come l'acido oleico si associ a una significativa riduzione del rischio cardiovascolare se derivato dagli alimenti vegetali, mentre l’efffetto risulterebbe nullo o addirittura opposto se lo stesso acido oleico deriva invece da alimenti di origine animale. Sembra piuttosto abbastanza intuitivo immaginare, per esempio, che nell'area mediterranea l'acido oleico, che deriva in buona parte dall’olio d'oliva extravergine, segnali un buon consumo di questo olio, ricco di polifenoli cui la recente letteratura nutrizionale attribuisce una serie di effetti positivi, tra cui un’azione sul microbiota, sull’espressione di geni specifici o sull'attività delle amilasi intestinali, e che siano questi polifenoli, per un effetto che potremmo definire di “trascinamento”, a spiegare le associazioni protettive rilevate tra il consumo dei monoinsaturi e la salute in Europa. Negli Stati Uniti, lo stesso acido oleico deriva da altri oli vegetali privi di quantità significative di questi composti minori, o da carni come il pollo e non mostra alcun significativo effetto protettivo, dato che gli alimenti che ne rappresentano la fonte principale negli Stati Uniti non ne posseggono.

Che tipo di raccomandazioni è bene, dunque, suggerire?

Mi baserei sulle conclusioni del lavoro pubblicato sul Lancet nel 2019, da parte del gruppo Global burden of disease, che, partendo da una revisione sistematica della letteratura mondiale, non ha identificato significative correlazioni tra la mortalità cardiovascolare e il consumo alimentare di acidi grassi totali, di grassi saturi e di grassi monoinsaturi, rilevando invece l’opportunità di aumentare il consumo di polinsaturi sia della serie omega-6 e sia della serie omega-3, e di ridurre i trans insaturi. In armonia con questi dati, il suggerimento principale che si può trarre dalla nostra review è di aumentare il consumo di alimenti di origine vegetale, inclusi quelli a componente grassa significativa come frutta secca, semi, oli, e di scegliere cosa consumare tra quelli di origine animale sulla base delle preferenze specifiche o dell’impatto ambientale, più che sulla composizione in nutrienti tra cui gli acidi grassi. I prodotti della filiera del latte, per esempio, pur ricchi in saturi, non andrebbero in alcun modo demonizzati: l’articolo del Global burden of disease citato suggerisce, in realtà, di aumentare lievemente il consumo di latte e alimenti ricchi di calcio. L’idea, in altre parole, è di orientarsi verso un concetto di “nutrizione positiva”, che valorizzi gli alimenti e i nutrienti con effetti di salute favorevoli, da consumare in quantità maggiori di quanto non facciamo attualmente, piuttosto che su quelli con effetti negativi, di cui limitare il consumo. Come emerge, d’altra parte, dalla letteratura relativa alla Dieta mediterranea, certamente la più citata come modello nutrizionale di riferimento.

Nicola Miglino

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