I simbiotici, intesi come combinazione di probiotici e prebiotici, si stanno affermando come una potenziale opzione terapeutica in grado di modulare il microbiota. Il razionale è solido: i probiotici introducono nuove specie mentre i prebiotici forniscono un substrato per le specie microbiche preesistenti. Dato che tutti gli esseri umani possiedono i generi Bifidobacterium e Lactobacillus nel loro microbiota intestinale, fornire substrati che alimentino questi batteri endogeni può quindi essere una strategia più efficace rispetto all’introduzione di specie batteriche esogene in un ecosistema resiliente.

In collaborazione con Yakult Italia

Correva l’anno 1998, quando l’americano Michael D. Gershon, docente alla Columbia University di New York, coniò per primo la definizione di “Intestino secondo cervello”. Da allora, molti studi si sono concentrati sulla correlazione tra i due organi, più recentemente sul ruolo giocato dal microbiota intestinale in questa interazione e su come poter intervenire nel correggere stati di disbiosi, potenzialmente implicati in patologie ora a carico dell’intestino, ora del sistema nervoso centrale.

A fare il punto con noi, in occasione del suo intervento al congresso Brain&Malnutrition tenutosi di recente a Milano, Fabio Pace, direttore UOC di Gastroenterologia, ASST BG EST, Seriate (Bg).

L’interazione tra microbiota intestinale e ospite è al centro dell’interesse della ricerca biomedica e offre interessanti spunti diagnostici e di trattamento. Il microbiota intestinale, un meta-organo composto da varie tipologie di microorganismi (batteri, virus, protozoi, miceti, ecc.), svolge un ruolo importante nel mantenimento della salute e nella prevenzione di malattie sistemiche (oltre a quelle gastrointestinali) tra cui quelle cardiovascolari e metaboliche, associate ad alterazioni della composizione e riduzione della biodiversità del microbiota intestinale (disbiosi), insieme a un aumento della permeabilità della barriera mucosale.

Un cocktail di pre e probiotici contro i sintomi del Long-Covid. A segnalarlo, i risultati di uno studio condotto da un team di ricercatori dell’Università cinese di Hong Kong, pubblicato su The Lancet Infectious Disease.

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