Bassi livelli di vitamina D sono correlati da una parte ad aumento di Il-6 e, dall’altra, a una maggiore gravità di Covid-19. Questi i risultati di uno studio osservazionale condotto da un gruppo di lavoro dell’Università di Siena e dell’Irccs Istituto auxologico italiano, comparso nei giorni scorsi nell’area First Look on Ssrn delle riviste del gruppo The Lancet, spazio open access dove vengono raccolti lavori in attesa della peer review e prima dell’effettiva pubblicazione.

Il detonatore è un articolo sul sito del quotidiano la Repubblica dal titolo: “Mangia il ferro di cui si nutre il virus, così la lattoferrina può combattere il Covid". Racconta di una ricerca condotta dall’Università Tor Vergata di Roma in collaborazione con l’Università La Sapienza che suggerisce un effetto protettivo della lattoferrina contro Covid-19. Da una parte, le farmacie della Capitale vengono prese d’assalto mentre, dall’altra, impazza la guerra mediatica tra scienziati.

Con lo scoppio della seconda ondata di Covid-19 nel nostro Paese, si è riacceso il dibattito intorno al ruolo degli integratori nutrizionali nella prevenzione e nel trattamento della malattia. Per ribadire alcuni concetti chiave sulla base delle evidenze scientifiche abbiamo chiesto un parere ad Arrigo Cicero, presidente della Società italiana di nutraceutica.

“Studi epidemiologici e osservazionali supportano l'ipotesi di un ruolo protettivo della vitamina D nei confronti di Sars-coV-2, ma si tratta per lo più di analisi retrospettive o basate su piccoli campioni. Sono dunque necessarie ulteriori ricerche, molte delle quali in corso, per verificare l'utilità della supplementazione nella prevenzione e/o nel trattamento di Covid-19, nonché per chiarirne il ruolo nei processi fisiopatologici”. Così Riccardo Caccialanza, direttore dell’Uoc di Dietetica e Nutrizione clinica al San Matteo di Pavia, uno dei maggiori esperti italiani e internazionali per quanto riguarda la relazione tra nutrizione e Covid-19.

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