Nutrizione nei pazienti Covid-19, a Pavia esperienza guida

16 Aprile 2020

Lo stato nutrizionale dei pazienti ricoverati per Covid-19 può rivelarsi un fattore prognostico per il peggioramento del quadro clinico e la necessità eventuale di ventilazione assistita. Un’esperienza interessante sui protocolli da adottare al momento dell’arrivo in corsia giunge dal Policlinico San Matteo di Pavia, una delle strutture maggiormente coinvolte dall’emergenza sin dai primi casi emersi a fine dello scorso febbraio.

Quanto praticato a Pavia è stato oggetto di una recente pubblicazione su Nutrition. Abbiamo chiesto a Riccardo Caccialanza, direttore Uoc di Dietetica e Nutrizione clinica al San Matteo, di raccontarci quanto da loro operato.

Dr. Caccialanza, quali sono le condizioni nutrizionali in cui si presentano i pazienti Covid al momento del ricovero?

Possiamo basarci su una casistica piuttosto ampia, considerato che al San Matteo, nel periodo di picco massimo delle scorse settimane, siamo arrivati a 350 letti Covid e 64 posti in rianimazione: tutti i reparti di medicina, pneumologia e malattie infettive sono stati dedicati a questa emergenza. Tendenzialmente i pazienti si presentano con Body mass index piuttosto elevato, da 26 kg/m2 in su, quindi in sovrappeso. La casistica Covid rappresenta un modello molto peculiare di malnutrizione acuta, nel senso che i pazienti immediatamente dopo il ricovero presentano spesso una reazione infiammatoria molto severa che è quella che poi influisce sulle complicanze e la prognosi. Questi pazienti, subito dopo il ricovero, probabilmente come conseguenza di questa reazione infiammatoria, sviluppano anoressia spiccata che impatta notevolmente sull’intake: diventano facilmente ipofagici e lo sviluppo rapido di insufficienza respiratoria può compromettere completamente l’alimentazione.

Vi sono fattori prognostici legati al quadro nutrizionale iniziale dei pazienti?

Lo stato nutrizionale di partenza è molto importante perché, da alcune evidenze preliminari che stiamo valutando attraverso uno studio multicentrico chiamato Nutri-Covid19, emerge come il sovrappeso e la presenza di caratteristiche tipiche della sindrome metabolica quali diabete, dislipidemia, resistenza insulinica sembrino costituire un fattore predittivo dello sviluppo di complicanze più severe, in particolare di insufficienza respiratoria grave.

Come avete agito nell’emergenza?

Nelle prime settimane è stato piuttosto complicato in quanto non avevamo idea, come nutrizionisti, di come poter intervenire. Grazie alle riunioni multidisciplinari che qui da noi sono state fondamentali per ragionare insieme agli altri colleghi sulle strategie terapeutiche più indicate, di comune accordo con internisti, infettivologi, pneumologi e farmacisti ospedalieri, siamo arrivati a implementare un protocollo di supplementazione nutrizionale precoce basato sulle poche evidenze presenti in letteratura scientifica sulla patologia. Il fine era cercare di garantire ai pazienti un supporto non solo meramente calorico/proteico ma anche di nutrienti con un profilo interessante sotto l’aspetto dell’azione antinfiammatoria/antiossidante e di prevenzione della perdita di muscolo per cercare di evitare che i pazienti progredissero verso l’insufficienza respiratoria o addirittura la terapia intensiva.

Quale strada avete percorso?

Innanzitutto, abbiamo puntato su diete speciali ad alta densità energetica e facile digeribilità per semplificare la fase di assunzione: diete di consistenza morbida, frullata o semiliquida in maniera che i pazienti potessero assumerla con facilità senza particolari complicazioni, anche perché non potevano essere assistiti ai pasti per motivi di sicurezza. Nello stesso tempo, è stata fornita una supplementazione precoce di proteine di siero di latte. Abbiamo un’ampia esperienza su questo fronte nei pazienti oncologici. Si tratta di proteine ad alta digeribilità con proprietà immunomodulanti e antinfiammatorie Ci sono dati in letteratura sulla protezione da infezioni di queste proteine e quindi abbiamo reso l’approccio sistematico su tutti i pazienti.

Sempre per tutti abbiamo provveduto a una supplementazione endovenosa precoce con multivitaminici e oligoelementi. Approccio sicuramente discutibile, non basato su dosaggi sierici specifici come la pratica clinica vorrebbe, ma dettato dal fatto che in questa patologia, come suggerito anche da alcuni dati provenienti dalla Cina, è stata evidenziata una potenziale azione favorevole di antiossidanti e apporti vitaminici anche a dosaggi corrispondenti alle RDA e, pertanto, senza particolari rischi di tossicità.

Abbiamo, poi, effettuato un dosaggio sistematico della vitamina D-25OH, implementando un protocollo di supplementazione precoce a seconda dei livelli sierici riscontrati, in considerazione delle evidenze emergenti in letteratura che suggeriscono un ruolo chiave della vitamina D a livello immunologico.

I dati preliminari che cominciamo a vedere ci dicono, infatti, che una grandissima percentuale di pazienti ricoverati in ospedale per Covid-19 presenta valori estremamente bassi di vitamina D, difficilmente ascrivibili a stagionalità, scarsa assunzione alimentare o scarsa esposizione solare. Parliamo, mediamente, di livelli sotto i 10 ng/ml, una ipovitaminosi marcatissima. Se questo sia concausa o effetto della malattia, andrà valutato con trial specifici. La nostra esperienza, comunque, ci suggerisce di ricorrere a una supplementazione precoce di vitamina D.

Oltre a questo approccio generale, vi sono stati protocolli dedicati su casi specifici?

Sì. In base a uno screening nutrizionale semplificato, laddove si riscontravano casi di perdite di peso già presenti nei mesi precedenti il ricovero o situazioni che facevano prevedere rischio immediato di calo ponderale piuttosto che di grave astenia, si procedeva con una integrazione aggiuntiva precoce di 2-3 flaconi al giorno di supplementi nutrizionali orali, proteico-calorici, da 125-200 ml ciascuno. Se il paziente non riusciva ad assumerne due al giorno per due giorni consecutivi, ovvero un equivalente di 500-600 calorie/die, si passava alla valutazione di una nutrizione artificiale, nella forma parenterale per via periferica o centrale.

Come mai avete preferito la via parenterale a quella enterale?

Nei pazienti che da un momento all’altro sviluppano insufficienza respiratoria e che richiedono ventilazione assistita, prevedere una nutrizione enterale diventava complicato per una serie di motivi, per esempio anche in relazione al fatto che ci vogliono presidi specifici come caschi di un certo tipo non sempre disponibili. Qualche paziente è stato trattato per via enterale, che sappiamo necessita di monitoraggio accurato del ristagno gastrico. Lo scenario delle prime settimane è stato molto complicato da questo punto di vista, anche per lo sviluppo di gastriti erosive legate allo stato infiammatorio. Ora, per fortuna, la gestione clinica sta gradualmente diventando più controllabile, quindi anche la nutrizione enterale può essere riconsiderata come opzione percorribile.

Quali conclusioni si sente di trarre?

Il risultato clinico del supporto nutrizionale è impossibile da valutare in sé rispetto alla gestione terapeutica globale e alla severità della patologia. Certo, il feedback dei colleghi è stato buono e il lavoro in équipe qui al San Matteo si conferma sicuramente un valore aggiunto. Possiamo comunque ipotizzare che il nostro approccio sia stato molto utile soprattutto nelle fasi precoci della patologia e sicuramente vogliamo portare avanti il tema del supporto nutrizionale anche nel follow up dei pazienti. Stanno, infatti, nascendo i primi ambulatori post-covid per i guariti e l’aspetto nutrizionale sarà considerato all’interno di team multidisciplinari per la messa a punto di protocolli di riabilitazione funzionale in cui la nutrizione giocherà sicuramente un ruolo molto importante. Le stesse linee guida nazionali e internazionali uscite nel frattempo confermano la necessità di un’azione precoce per prevenire le gravissime conseguenze di malnutrizione in questi pazienti. Ovviamente il nostro è stato un approccio pragmatico, molto diretto e legato a uno scenario di emergenza, magari non in linea con le finezze metodologiche sicuramente necessarie ma forse non ancora ipotizzabili in uno scenario di questo genere.

In conclusione, sulla base della vostra esperienza è possibile fornire qualche suggerimento anche per i pazienti in isolamento domiciliare?

Consiglierei sicuramente un multivitaminico a dosaggio standard e un’integrazione di vitamina D a basso dosaggio, tra 1.000 e 2.000 Ui/die in quanto comunque è altamente probabile un deficit che va sanato. È importante, inoltre, cercare di mantenere un buon apporto proteico e di favorire, laddove possibile, una discreta attività fisica a domicilio per preservare la massa muscolare utile nel facilitare il recupero post convalescenza.

Nicola Miglino

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