Le aziende alimentari, con l’intervento delle istituzioni, devono ridurre la quantità di sale, seguendo le indicazioni più volte ribadite dall’Organizzazione mondiale della sanità. Questo l’appello lanciato da Meno Sale Piu Salute, il gruppo di lavoro Sinu (Società italiana nutrizione umana) coordinato da Pasquale Strazzullo e Giulia Cairella, in occasione della Settimana mondiale per la riduzione del consumo di sale, in calendario dal 15 al 21 maggio da Wassh (World action on salt, sugar and health). Obiettivo: richiamare l’attenzione sulla necessità di ridurre il contenuto di sale nei prodotti trasformati e nella ristorazione collettiva.

Preservare la salute infantile, per garantire benefici in età adulta, è da sempre una delle sfide mondiali di salute pubblica e in questo contesto giocano un ruolo di primo piano gli alimenti e le bevande ultralavorati. Secondo la classificazione Nova, proposta nel 2010, questi sono realizzati a partire da alimenti naturali trasformati attraverso processi fisici, biologici e chimici, con tipica aggiunta di ingredienti e additivi, prima di essere consumati o preparati come pasti. 

Cina e Usa sono i Paesi che possono mettere a rischio l’obiettivo che l’Oms si è data di ridurre entro il 2025 del 30% il consumo di sale a livello mondiale. Il dato emerge da uno studio pubblicato su Bmj open che ha esaminato decine di migliaia di prodotti trasformati a base di carne e pesce presenti nei supermercati di cinque nazioni che proprio l’Oms sta monitorando per verificare il trend rispetto agli obiettivi prefissati: Usa, Uk, Australia, Cina e Sud Africa.

Il consumo eccessivo di cibo ultra-processato comporta un elevato rischio di sviluppare una malattia infiammatoria cronica intestinale (Ibd). Questi i risultati di uno studio da poco pubblicato sul British medical journal.

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