Dai circa 26 mila partecipanti al Vital, ne sono stati selezionati 16.500 di cui si disponevano campioni di sangue prima della randomizzazione a Vitamina D o placebo. Da qui, un’ulteriore selezione di 2.750 soggetti di cui si avevano campioni ematici dopo due anni di follow-up. I marcatori misurati prima e dopo sono stati: 25-idrossivitamina D totale (25-OHD), 25-OHD3, vitamina D libera (FVD) , vitamina D biodisponibile (BioD), proteina legante la vitamina D (VDBP), albumina, ormone paratiroideo (PTH) e calcio.
Prima della randomizzazione, i livelli sierici totali di 25-OHD erano progressivamente più bassi nelle categorie di Bmi più elevate (sottopeso, 32,3 ng/mL; peso normale, 32,3 ng/mL; sovrappeso, 30,5 ng/mL; classe di obesità I, 29,0 ng/mL; classe di obesità II, 28,0 ng/mL). Stessa cosa per 25-OHD3, FVD, BIoD, VDBP, albumina e calcio erano più bassi con un Bmi più elevato, mentre il livello di PTH era più alto.
Dopo due anni di supplementazione, si è assistito a un aumento dei livelli totali di 25-OHD, 25-OHD3, FVD e BioD rispetto al placebo, un incremento, però, risultato significativamente inferiore nelle categorie di Bmi più elevate. Nessun effetto, invece, su VDBP, albumina, PTH o calcio.
Questo il commento finale degli Autori: “Il nostro studio fa luce sul motivo per cui stiamo assistendo a riduzioni del 30-40% dei decessi per cancro o dell’incidenza di malattie autoimmuni e altre patologie con l'integrazione di vitamina D tra chi ha un Bmi più basso, ma a benefici minimi in chi presenta un indice di massa corporea più elevato, suggerendo che si potrebbero ottenere vantaggi per tutta la popolazione soltanto personalizzando i dosaggi”.
Nicola Miglino